Un altro genere di forza
Alessandra Chiricosta
Femminismi
Ho scritto un pezzo su questo libro che è apparso il 13 maggio sul Magazine Vitamine Vaganti a questo link: https://vitaminevaganti.com/2023/05/13/e-se-la-forza-non-fosse-solo-quella-virile/
Riporto il testo integrale:
E SE LA FORZA NON FOSSE SOLO QUELLA VIRILE?
Nella mia lunga esperienza come sportiva e giocatrice di basket, ho sentito spesso denigrare lo sport femminile. Frasi come «il basket femminile non è divertente» o «ti sembra che venga a vedere una partita di basket femminile?» sono per me all’ordine del giorno. Di frequente però, superato il pregiudizio iniziale, numerosi spettatori, nel tempo, a fine partita mi hanno riportato commenti positivi. In generale, l’emozione comune era la sorpresa di vedere che anche noi donne correvamo, ci mettevamo intensità esprimendo caratteristiche tecniche e tattiche apprezzabili. «Certo che correte e vi picchiate molto voi donne quando giocate» è stata forse la frase più pronunciata. Al di là del fastidio che ciò mi ha sempre provocato, ho cercato, negli anni, di capire cosa ci fosse dietro a questo atteggiamento e pregiudizio, a quest’idea che un corpo femminile non fosse adatto o all’altezza di compiere determinati movimenti o a praticare sport dove fossero in gioco atleticità, potenza, forza. Il libro di cui parlerò nell’articolo, Un altro di genere di forza di Alessandra Chiricosta, è stato per me un tassello fondamentale nella direzione dello svelamento di questo quesito.
Nel testo, la filosofa Chiricosta ci accompagna in un viaggio profondo e a tratti molto complicato e intenso all’interno di quello che lei chiama «mito della forza virile», per cercare di andare al nocciolo di un assunto che nella nostra società è dato come naturale – quindi biologicamente determinato – e oggettivo, ovvero il fatto che la forza sia una prerogativa a esclusivo appannaggio maschile mentre la debolezza un aspetto tutto femminile. Una dicotomia che Chiricosta dimostra essere fondante e fondativa del nostro pensiero occidentale, una – come la chiama lei – «profezia autorealizzatasi». In altre parole, ci dice l’autrice, nessuno mai ha messo in discussione il paradigma per cui il corpo di un uomo è sempre più forte di un corpo femminile o femminilizzato e che questa forza si esercita e si concettualizza quasi esclusivamente in termini di violenza, sopraffazione o schiacciamento. Insomma, come afferma Simone Weil – citata a più riprese nel libro – si esercita «dall’alto verso il basso» come «gravità». La non messa in discussione di questo paradigma, avverte Chiricosta, rafforza continuamente un sistema sessista e patriarcale e funge così da «dispositivo di biopotere» tenendo i nostri corpi sotto scacco. Prendendo in prestito da Bourdieu i concetti di forza simbolica e di habitus, la ricercatrice spiega come la «forza fisica si consolida e si assolutizza non solo tramite la reiterazione di violenti atti corporei, ma soprattutto grazie alla capacità della forza fisica di trasformarsi in forza simbolica, di divenire cultura incarnata». L’interiorizzazione della forza come un attributo di virilità è quindi decisamente profonda nella nostra società al punto da agire come forma di «addomesticamento» e «autocastrazione» sui nostri corpi non necessitando più «di forme esterne di imposizione». «Il corpo femminile», precisa Chiricosta, «è oggi scempiato e deformato da ferite provocate dal biopotere di morali ed etiche, estetiche, urbanistiche, politiche, religiose e laiche, che traggono la loro legittimazione sovente nel non detto di pre-categorizzazioni culturali. Lo abbiamo vissuto sui nostri corpi-mente. E così viene riprodotto di madre in figlia, così come di padre in figlio s’incarna il dictat della forza virile».
L’autrice, assumendosi il ruolo di sviscerare il mito della forza virile, va alla ricerca non tanto di un punto di origine di esso – pretesa quantomai irrealistica – bensì delle «pratiche e le modalità attraverso cui costruzioni culturali – quali quelle della mascolinità e femminilità –vengono prodotte, trasmesse, trasformate». Tra i numerosissimi percorsi presentati nel libro è sicuramente interessante quello che si evince dall’analisi delle Etymologie di Isidoro da Siviglia, grammatico tardo- antico molto influente al suo tempo. Qui Chiricosta dimostra che nel trattare le vari fasi della vita degli esseri umani (infanzia, fanciullezza, adolescenza, giovinezza, maturità, vecchiaia) la categorizzazione del vir (uomo adulto), come naturalmente determinato sia da una maggiore vis (forza) rispetto all’altro genere che dall’esercizio di essa sulla mulier (donna adulta), si basa su una cancellazione. Ciò che scompare in questa concettualizzazione è la figura della vira, termine paritetico di vir ed esistente nel latino antico. Questi termini però non derivano più da vis bensì da vireo che significa “verdeggiare”. In tal senso, quindi, il passaggio alla vita adulta non viene più concepito come determinato da una sopraffazione e quindi un’inferiorizzazione della donna rispetto all’uomo, bensì come la sperimentazione di una forza verdeggiante, tipica dell’albero. Una forza che, avendo radici solide, permette di spingere verso l’altro in un moto di accrescimento nel rispetto dei propri limiti. Una narrazione, questa, che si è completamente persa con la vittoria del paradigma della forza virile. Viene da chiedersi, quindi, cosa sarebbe successo se avesse vinto la vira invece che l’addomesticata mulier.
Anche quando le donne hanno saputo esprimere un loro tipo di forza (nel libro di parla in maniera specifica di forza combattente), l’autrice fa notare che questa è stata spesso sabotata attraverso molteplici dispositivi di “riaddomesticamento” come ad esempio la feticizzazione e la mitizzazione. A ciò si unisce anche il rendere le donne combattenti mostruose o eccezionali all’unico scopo di rappresentare la loro esperienza come non replicabile, fuori dalle logiche del reale. Un esempio di cui scrive lungamente Chiricosta sono le Amazzoni ― «una storia di combattenti che non diviene Storia» ― che nel loro «assetto nomadico» sono state, a più riprese, ridimensionate sia attraverso processi di feticizzazione e sessualizzazione che tramite un netto «spostamento dal piano storico a quello mitico». La mitizzazione ha quindi oscurato la loro forza che la ricercatrice delinea magistralmente con queste parole: «l’Amazzone è androgina perché è intera, in lei è la forza come autoaccrescimento, non è stata mutilata. Pentesilea incarna una corpo-realtà combattente che restituisce ben altra idea rispetto a una natura femminile debole e più molle. Per chi sperimenta la libertà e la forza del vento, la mollezza come definizione non ha più senso, o meglio, assume sensi nuovi e inattesi: come la canna di bambù insegna, è proprio nella capacità di rendersi morbidi, elastici e flessibili che si acquista una maggiore forza».
Sviscerando e mettendo in discussione il paradigma della forza virile, Chiricosta apre a una moltitudine di esperienze e concettualizzazioni della forza difficile da riassumere in questo contesto e che richiedono – per le persone più curiose – la lettura integrale del testo. Il suo è un viaggio attraverso diverse culture, da quelle occidentali a quelle del Sudest asiatico – soprattutto attraverso lo studio e le pratiche delle arti di combattimento di cui lei è praticante e insegnante – verso lo svelamento di una forza che non sia solo muscoli, ma che tenga conto anche di altro come la velocità, la tattica, l’attitudine. Per farlo la ricercatrice cerca di superare una visione binaria, specista e colonizzatrice per trasmettere il messaggio che rifiutare la forza virile non significa rifiutare la forza in toto, altrimenti si rischia un’essenzializzazione nell’altro verso – ovvero quella delle donne naturalmente mansuete, docili, pacifiche e pacificate – bensì significa, nelle sue parole, imparare ad «agire un conflitto in maniera non identitaria e virile» diventando, a seconda della situazione, acqua, legno, fuoco, terra e metallo.
In generale, mi sembra che questo libro e questo tipo di ricerca, se applicata al mondo sportivo, ci potrebbe aiutare a capire più in profondità la reticenza nei confronti delle donne che praticano sport considerati “maschili” e del perché ancora fatichiamo a sviluppare un linguaggio che sappia narrare una donna nell’espressione della sua forzasenza ricorrere a espressioni stereotipate che la paragonano a un uomo.