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Intervista ad Eddie
condotta da Annavittoria Sarli ed editata da Camilla Valerio

Intervista già apparsa su Italics Magazine in lingua inglese 

 

Eddie trascorre l’infanzia e l’adolescenza in Italia. Nasce a Schio, in provincia di Vicenza, poi si sposta ad Ancona. A quindici anni si trasferisce con la famiglia a Bristol, in Inghilterra. Risiede tuttora in UK e ha 23 anni. Ha due sorelle, studia Information Communication Technology e ama la tecnologia. È first-gen ambassador e parla fluentemente tre lingue: italiano - che considera la sua madrelingua, inglese e twi - lingua che gli è stata trasmessa dai genitori, di origine ghanese. È di fede pentecostale protestante.

 

D: Come ti descriveresti? 

 

R: Direi che sono un essere umano in tanti modi straordinari che non rientrano nel mainstream. Fino a poco tempo fa mi sarei descritto come afro-italiano, però pian piano mi sono accorto che il termine più adeguato alla ricchezza di cultura e conoscenza che ho avuto la fortuna di accumulare è afro-europeo. Mi ritrovo veramente in quello che sta diventando l’Europa: un posto multi-etnico. Ci sono francesi, spagnoli, poi c’è la diaspora e il suo by-product che siamo noi, nati e cresciuti qua. Per questo quando si tratta di programmi europei sono il primo ad alzare la mano e dire: “Sono pronto a partecipare, cosicché anche noi possiamo veramente essere considerati come cittadini europei.”

 

D: Come hai vissuto il trasferimento in UK?

 

R: Ho faticato molto ad ambientarmi. Non conoscevo le norme sociali, non avevo etichetta, la mia italianità era troppo evidente, sfuggiva, non aveva controllo! Mi rifiutavo di uniformarmi a un ambiente che non mi riconosceva così com’ero. Percepivo che il mio modo di fare lasciava spiazzata la gente. Qui in Inghilterra fanno fatica a dare una collocazione alle persone nere nate o cresciute in UE, ma avrei voluto che la domanda mi venisse posta apertamente: “Perché non sei come tutti quelli che immigrano direttamente dall’Africa? O perché non sei neanche come una persona nera che è cresciuta in Inghilterra?”

 

Ho dovuto esplorare l’idea di avere più personalità (ride). Ricordo quando cercavo di trasferire la mia personalità italiana agli inglesi, qui. Volevo essere spiritoso nella maniera in cui sono spiritoso in italiano e mi rendevo conto che non funzionava. Poi ho capito che la tua personalità viene anche plasmata dal modo in cui sei percepito in un determinato ambiente.

 

Così è cominciata una crisi esistenziale che ho vissuto come una “battaglia di lingue”. Ho incontrato tante persone della mia stessa discendenza che erano arrivate dall’Italia e avevano completamente perso l’italiano. Mi sono detto: “Non sarò questa persona. Io l’italiano me lo tengo bene stretto al cuore!” ma poi, a volte, arrivavo a un punto in cui dicevo: “Basta, non ce la faccio più! Ho così tanto da imparare in inglese che se non lascio una parte di me non potrò mai arrivare lontano. Invece mi sbagliavo e fortunatamente l’ho capito. Ho dovuto lottare per trattenere in me una molteplicità culturale e linguistica più ampia della norma. Qualsiasi cosa che sia fuori dalla norma è difficile da ottenere! 

Attraverso la mia esperienza vorrei proprio trasmettere l’idea che l’italiano non è solo questa persona bianca, fatta in un certo modo e che vive in un certo luogo. L’italiano fa parte del tessuto sociale del mondo globale. Può essere poliglotta, avere una pigmentazione diversa, spostarsi, avere una “inter-racial relationship” e fare figli asiatico-italiani, afro-italiani, latino-italiani… Tante varietà!

 

 

D: Ti piacerebbe tornare a vivere in Italia?

 

R: Si mi piacerebbe perché mi sento molto legato all’Italia, però, sarò sincero, a me spezza il cuore vedere come lì vengono trattate le persone della mia origine. Non saprei come vivere in una società che fondamentalmente non mi riconosce. Di certo intratterrò rapporti di lavoro e amicizia con l’Italia, ma non me la sentirei di farci crescere i miei figli, di farli vivere in un posto in cui vengano razzializzati.

Personalmente nella mia esperienza in Italia sono stato fortunato, perché non ho mai sentito di subire veri e propri atti di razzismo. Sì, forse sono stato vittima di bullismo, ma non mi sono mai considerato tale. Pensavo: “Va be’, stanno scherzando.”. Il fatto è che mi bullizzavano e poi tornavamo amici, per cui ero confuso: “Ma quindi ti piaccio o non ti piaccio?” La verità è che gli piaceva prendermi in giro! Soprattutto gli piaceva che fosse così facile prendermi in giro, per di più tenendomi sotto braccio, in modo da farci bella figura, capisci? (Ride) In generale in Italia avevo tanti amici, però mi ricordo bene della “battutella” che ogni tanto scappava, il ricordarmi che ero nero, diverso, che quello non era il mio paese e che eventualmente avrei fatto bene a tornarmene da dove venivo. Tutto avveniva in termini “giocosi” e io non capivo mai la gravità. Ora che sono in Inghilterra però questa mia percezione è cambiata. Qui non ti puoi permettere di dire a una persona “torna al tuo paese!” Diventerebbe una questione politica, perché in Inghilterra le persone appartenenti alle minoranze etniche occupano posizioni di potere. Qui si riconosce come norma sociale il fatto che ci sia diversità. 

Infatti una cosa che mi è sempre mancata in Italia era la rappresentazione. Io non ho mai visto una persona che fosse di colore, a nessun livello, fare qualcosa di grosso. In Inghilterra all’inizio mi sembrava strano andare in un negozio e trovare un commesso nero, salire sull’autobus e trovare un autista nero, andare in banca e interfacciarmi con un bancario nero. Prima mi stupivo sempre, poi però tutto ha iniziato ad avere più senso e mi sono detto: “cioè… ma in che società vivevo in Italia?” Sì, mi sentivo integrato, ma sembrava che non ci fosse diversità o che la società non la riconoscesse. 

 

D: Chi sono i tuoi amici? 

 

R: La mia storia a volte mi porta ad essere un po’ incompreso. Le uniche persone che possono capirmi fino infondo sono quelle che hanno un percorso esistenziale simile al mio. Con loro è già più facile trovarsi, con tutti gli altri devo sempre dare mille spiegazioni. Invece quando vedi persone che assomigliano un po’ più a te, che veramente vengono da dove vieni anche tu, subito si crea qualcosa di magico… non so spiegarti cosa sia, ma so che è vero per me.

 

Dico questo, eppure la mia migliore amica viene dalla Polonia. Lei ha studiato psicologia. All’inizio non era particolarmente interessata a conoscermi, ma siamo diventati amici grazie a un test di personalità (ride). Me lo ha somministrato e a quanto pare siamo risultati compatibili. Lei si è fidata dei dati, è molto scientifica (ride). Però è anche una persona di fede, come lo sono io. La nostra complicità sta nel fatto di appartenere entrambi a minoranze religiose: anche lei è cresciuta come protestante in un paese cattolico. C’è un mondo di diversità tra noi, ma questa singola cosa ci ha legati.

 

D: Nella tua storia c’è qualcosa che ti ha aiutato ad avere scambi positivi con persone culturalmente diverse da te?

 

R: Crescendo in Italia pensavo che in Ghana non avessero niente. Venendo qui, invece, mi sono reso conto che in alcune zone del Ghana si vive benissimo, che ci sono libri, scritti da autori ghanesi, letti in tutto il mondo. Vivere in Inghilterra mi ha cambiato la mentalità, perché in Italia l’informazione sull’interculturalità è limitata. Questo mi ha aiutato ad interagire con la diversità culturale, perché mi sono sentito “empowered”. Mi sono detto: “Wow, anche noi abbiamo qualcosa da offrire a questo mondo!”

 

D: A te è capitato di fare da mediatore tra persone provenienti da ambienti culturali diversi?

 

R: Sì, ad esempio quando capita che persone che hanno una storia simile alla mia, cresciute in Italia e poi arrivate in Inghilterra, facciano una battutaccia che qui non capisce nessuno. In questi casi cerco di aiutare la persona dicendole: “So che sei stranita, ma è solo una barriera culturale e linguistica”. Poi provo a smorzare l’imbarazzo cercando di trovare un livello di comunicazione universale, per ribilanciarci. Non mi piace che in una conversazione di gruppo ci sia qualcuno che si sente un pesce fuor d’acqua. Per questo cerco sempre di essere una persona che nei gruppi unisce.

 

D: Conosci persone che non sono efficaci nelle interazioni interculturali?

 

R: Sì, molte delle persone che conosco non sono in grado di apprezzare la diversità. Io sono proprio attratto da queste persone, perché mi piace espandere la loro visione del mondo, sfidandola. Non posso pensare al mondo ideale che vorrei, se ancora ci sono membri della società che non sono disposti ad accogliere chi non è come loro. Per questo cerco di invitarli ad una conversazione: parlo di me stesso, di quello che ho vissuto. Questo li aiuta un po’ ad aprirsi, ad ascoltarmi. Poi man mano che passa il tempo, che leghiamo di più, inizio ad imbeccarli con nuovi modi di fare, di vedere: degli input per poterli sciogliere. Non voglio che si precludano la possibilità di diventare un po’ più accoglienti.

 

D: Secondo te come si impara ad interagire in modo costruttivo con persone di cultura diversa dalla propria?

 

R: Sposando le cause delle minoranze ed empatizzando con loro. Questo lo si fa capendo in profondità il loro punto di vista, istruendosi, anche in maniera autonoma, da soli. Devi essere tu stesso a sfidare il tuo modo di pensare. Bisogna andare in una biblioteca, immergersi ed approfondire per comprendere appieno la storia che ha portato l’altro a vedere le cose in un certo modo. In poche parole serve umiltà, per capire quanto si è ignoranti (ride) e quindi serve mettersi in discussione.

Insomma, secondo me per diventare più forti nell’interazione interculturale è importante restare fuori dalla propria comfort zone, resistere anche se ti senti disorientato, a disagio, la tua testa sembra esplodere. Però man mano che si affrontano situazioni scomode, specialmente a livello di incomprensione culturale, si inizia a capire che indossando le lenti di un altro è possibile vedere ragioni diverse oltre alla tua. Bisognerebbe semplicemente avere una mentalità aperta, ma non è così naturale, è questo il problema. L’umiltà non è facile, soprattutto se in Italia vieni stimato come particolarmente colto, poi vai in Africa e ti fanno: “ma… dove hai imparato questa storia?” Molte persone fanno fatica a capire che: “cioè, ho studiato più di vent’anni e ancora non capisco?”

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