L’altro giorno una persona che conosco da più o meno tutta la vita mi ha detto: “io me lo ricordo mio padre che menava mia madre. Una volta le ha dato una sberla così forte che è svenuta.” Stavamo parlando del film C’è ancora domani e poi del femminicidio di Giulia Cecchettin, delle lacrime che avevamo versato e di ciò che avevamo provato. Quella frase è uscita così, come qualcosa che si poteva dire. Qualcosa che andava raccontato. Ho pensato a quante donne e persone negli ultimi giorni si sono sedute a un tavolo di un bar o di una casa e hanno raccontato qualcosa delle loro esperienze. Un’altra amica mi ha detto “il mio ex una volta mi diceva che sapeva dove abitavo e mi voleva vedere per forza. Io li dicevo che non volevo ma lui insisteva. Ho avuto paura per un po’ di giorni.” Tipi diverse di violenze, una stessa matrice: il patriarcato. Alcune persone storceranno il naso a sentire questa parola, ma diciamoci la verità, non possiamo più scappare dal concetto. Qualcuno in questi giorni mi ha detto “io sono d’accordo che la violenza sulle donne è parte della nostra società ma questi che uccidono rimangono dei pazzi. Ammazzare una persona è qualcosa di diverso.” Gli ho risposto che forse uccidere è qualcosa che appartiene alla minoranza degli uomini che agiscono violenza ma nessuno degli uomini che ha commesso un femminicidio non ha commesso un qualche tipo di violenza di stampo patriarcale prima. Turetta era geloso, possessivo e agiva violenza psicologica tenendo Giulia Cecchettin in uno stato di ricatto emotivo. Non volevo che lei sfuggisse al suo controllo, è la libertà di lei che non poteva accettare. È la cultura dello stupro, alla base c'è il catcalling e all'apice c'è il femmincidio, in mezzo ci sono le botte certo ma anche i "non vali nulla", i tanti "i soldi tuoi li gestisco io" e "il rossetto no, è da puttana!" . Allontanare da noi l’idea che gli uomini che abbiamo vicino possano uccidere perché per uccidere devi essere pazzo è il primo modo per de-responsabilizzarci come società, per smettere di lavorare affinché questo non succeda più. La giornalista Guia Soncini sulle pagine de Linkiesta ha detto che non c’è niente da fare contro gli uomini che uccidono le donne perché è un fatto biologico, è uno squilibrio di forze che non si può pareggiare. Oltre a farmi particolarmente incazzare, questo atteggiamento mi sembra molto pericoloso. Nel mondo d’oggi esistono le pistole per sparare, si possono pagare degli aguzzini, ammazzare non è solo o sempre un' esercizio di forza muscolare, ma un esercizio di sopraffazione culturale. È la cultura che ti obbliga a schiacciare, non i tuoi muscoli.
Ma ritorniamo alle tante discussioni confidenze che hanno scandito i miei giorni da quando questa marea femminile e femminista si è messa in moto - grazie soprattutto alla forza profonda di Elena Cecchettin e alla concomitanza di un film come quello di Cortellesi che hanno spostato il tema dal piano della cronaca a quella della nostra società, come struttura, come sistema. Tutte queste testimonianze delle donne mi hanno travolta e nella disperazione del momento mi hanno dato luce. C’è molto da fare ma qualcosa si è smosso. La violenza sulle donne non è più solo il segno rosso sulla faccia il 25 novembre ma è qualcosa di cui possiamo e dobbiamo parlare. Ho sentito un’urgenza nelle donne, l’urgenza di liberarsi della vergogna. La violenza è qualcosa che subiamo ma non è qualcosa che abbiamo provocato. Non abbiamo colpe e la società, come collettività ma soprattutto nelle vesti di chi la guida, ovvero la politica, ha la responsabilità di accorgersene e di aiutare, di sostenere, di metterci i soldi e i finanziamenti, e i corsi nelle scuole e i braccialetti elettronici, e le forze dell’ordine che non minimizzano eccetera eccetera….
In tutto questo però un tassello ancora mi manca. La responsabilità degli uomini. Mi sarebbe piaciuto in questi giorni, al di là degli editoriali, sentire i miei amici, gli uomini a me più vicini aver voglia di parlare di questo tema partendo da sé. Elena Biaggioni, avvocata penalista e vicepresidente della Rete Dire contro la Violenza in un’intervista che le ho fatto quest’estate mi ha detto: “se una donna su tre nel mondo ha subito una qualche forma di violenza e io te, ognuna di noi conosce o è quella donna, dove sono invece gli uomini violenti, chi sono?” Dire “mi sono reso conto che quella volta ho agito una violenza” è una frase difficile, ma forse è questo il crinale da cui passa la nostra rivoluzione, la più profonda. Un ragazzo praticamente sconosciuto l’altra sera mi fa “e tu che ne pensi di questa situazione?” Devo ammettere che in quel momento mi sono sentita investita di molta responsabilità. Volevo trovare le parole giuste per spiegare il mio impegno, il mio punto di vista, quello che ho provato in questi giorni, il mio posizionamento e quindi ho risposto che c’è ancora molto lavoro da fare ma ci stiamo impegnano e bla bla bla. Tornata a casa nel letto mi sono detta ma perché non ho risposto “e tu, invece, cosa ne pensi?”. Forse dovremmo partire da qui. Dal capire che risolvere questo problema non passa da una schiera di (come ci chiamano alcuni) “maestrine” che ti spiegano quello che devi pensare a proposito della violenza di genere. Forse la domanda migliore da rivolgere agli uomini in un’ ottica di lotta comune e non di inutile e strumentale “guerra fra sessi” è “e tu?”, “e tu, l’hai agita la violenza?”, “e tu, l’hai subito la violenza?”, “e tu, la sai riconoscere la violenza?”
È una promessa che faccio a me stessa e che spero di condividere con più persone possibile per tutto il tempo che ci sarà da oggi in avanti: impegniamoci a rendere sempre più fertile, ampio e accessibile il terreno comune che ci fa parlare e ragionare di violenza di genere in tutte le sue forme e da ogni punto di vista. Forse non cambierà tutto il mondo, ma i mondi di tante persone sì, di questo ne sono sicura!
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