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  • valeriocamilla93

Approcciare i trent'anni


Tra pochi giorni compirò 30 anni. È un data che un po’ mi assilla e un po’ vorrei che passasse come niente fosse. Ho paura dei bilanci infausti che potrebbe generare la mia mente. Approcciare i 30 anni e non avere nulla da festeggiare, o approcciare i 30 anni e avere così tante cose da festeggiare da non sapere da che parte iniziare. Sembrano due cose diametralmente opposte ma sono la faccia dello stesso sentimento: la paura. Di aver perso qualcosa o di aver tutto da perdere.

 

Approcciare i 30 è per me oggi parlare di mutui o di matrimonio mentre di ubriachi un giovedì sera. È passare una giornata a fare binge watching e il giorno dopo aprire la partita Iva. Sono i messaggi della figlia della tua amica lo stesso giorno in cui un’altra, di amica, ti dice che sta mollando il fidanzato perché non se la sente di impegnarsi. I quasi 30 anni è comprare la televisione nuova mentre prenoti un concerto dei Pinguini Tattici Nucleari e ti ritrovi a cantare a squarcia gola sotto la pioggia.

I 30 anni sono “tensione evolutiva”, la tensione costante di rinegoziare un posto nel mondo in cui ti senti un po’ catapultata. È perdonare la te 18enne che diceva che a 30 anni saresti stata sistemata: figli presto, matrimonio, un lavoro fisso. Mi vergogno un po’ di essermi proiettata così, a 18 anni


I 30 anni per me sono però anche quel lasso di tempo in cui è arrivata una tragedia. E le tragedie - ho costatato in questi mesi di profondi ragionamenti sull’avere-cazzo-quasi-30-anni – le tragedie fermano il tempo, lo cristallizzando, lo rendono tangibile non più luce, un treno che passa, un attimo che non puoi cogliere. Le tragedie rendono il tempo materia palpabile. Magari non per tutti, ma per me è così. Ogni particella di me si è fermata a quel lontano 2014 in cui diagnosticavano la malattia e poi il 2017, e poi la vita senza di lei. Tutto quel tempo non tornerà più indietro. Forse è per questo che scrivo questo oggi, così, di getto, de botto. Per fare i conti col fatto che quel tempo non sarà mai più. Sarà sempre un blocco buio che riaffiora ogni volta che penso al passato e ogni volta sarà faticoso guardarci dentro, a volte rimarrà solo buio, a volte il ricordo di un sorriso riuscirà a penetrare l’oscurità, ma non sono sicura che il nero si trasformerà mai in grigio.


È giusto festeggiare il raggiungimento di un momento nella vita, quando maggior parte di quella vita l’hai passata con una persona che non c’è più? È una domanda assurda forse, ma a pensarci bene, quanti ricordi sono svaniti insieme a quella persona? Quante sfaccettature della tua persona perdute insieme a lei? Il suo sguardo su di me che non c’è più è infondo una parte di me che non c’è più, o no? La paura di non aver nulla da festeggiare, se non c’è lei a festeggiare. Cosa c’è da da celebrare, mi chiedo,  se a farlo non c’è lei?


Sono domande a cui non ho risposta ma che dentro di me vengono bilanciate da un’altra urgenza, un’altra presa di coscienza che forse sembra escludere l’altra ma che vorrei tanto potessero convivere: quante cosa ho da festeggiare, piccole o grandi, per una vita tutto sommato fortunata e privilegiata e piena di senso? Una vita da non morì mai. A volte mi sento così fortunata che ho paura che le cose possano andare male. “Non innamorarti di un’idea” mi sono detta ieri tra me e me, non innamorarti dell’idea che andrà sempre bene come sta andando oggi o nelle ultime settimane, non per pessimismo ma per la statistica delle probabilità, si sa, che gli intoppi ci sono.


E quindi se proprio devo arrivare ad una conclusione (che non c’è perché sempre rinegoziabile) la cosa più sensata da fare oggi mi sembra che sia constatare l’impossibilità di fermarlo quel momento di felicità ma sentire continuamente che esiste. La felicità che si trasforma subito in ansia, mania di controllo, paura di sentirsi giovani e non più troppo allo stesso tempo, sistemati e nel frullatore, arrivati e in divenire. Capaci di creare ricordi indelebili, le risate sulla spiaggia, il bagno nudi, le gite in barca, le canzoni cantate a squarciagola e allo stesso di vivere lunghi giorni di estenuante ma rassicurante routine. Svegliarsi, lavorare, incazzarsi, un bacetto prima di dormire, una risata sotto la doccia in spogliatoio, una polemica su quanto è ingiusto il mondo. Un giorno di lotta. La forza, tutto sommato, di attraversare il buio senza farsi inglobare. Con i sorrisi di chi hai perso a indicarti la via, con le persone che hai perso ogni tanto vicine, ogni tanto lontane, con la paura costante di dimenticarle all’improvviso.  Avvicinandomi così minacciosamente a questi benedetti 30 anni, mi sto rendendo conto che forse è arrivato il  momento di smettere di vederli come un pauroso salto nel vuoto ed iniziare a pensarli come un punto del viaggio in cui non vedi né l’inizio né la fine, la terra di mezzo, il luogo delle possibilità, quel momento in cui stai per mollare ma alla fine non lo fai, come trovarsi a metà strada durante un passo di montagna: stai facendo fatica a scavallare, ma vuoi mettere dopo che panorama che ti aspetta?



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